Carnevale: l'utopia per le strade
Carnevale, cioè "carne vale", una festa di addio alla carne, all'abbondanza (per chi, poi?) prima dell'inizio della quaresima (dopo una vita di stenti toccherà andare anche all'inferno!). Con questa scusa si scatenavano tutti i possibili capovolgimenti di ruoli, l'irrazionale che irrompeva nella quotidianità, lo scemo del villaggio eletto "re di carnevale" cui tutti comunque dovevano obbedire, anche se per pochi giorni, maschi mascherati da femmine, femmine vestite da maschi, borghesi vestiti da soldati e altri da preti, capovolgimento dei ruoli, gli animali rispettati e onorati come uomini: il mondo alla rovescia, il padrone che porta in groppa il suo asino, la femmina che parte soldato e il marito che deve accollarsi le faccende domestiche, gli uccelli nel mare, i pesci sugli alberi, gli asini direttori di coro e di orchestra (immagini dell'antichità sumerica!), cacciatori cacciati dalla selvaggina e così via.
Il carnevale come "mondo alla rovescia".
Ma la tradizione è più antica del cristianesimo, dall'antichità sumerica ai saturnali, questo grande "carnevale" del mondo romano, dove per pochi giorni si dava cittadinanza e agibilità all'assurdo, al capovolgimento dei ruoli, alla pazzia come "corda pazza" per vedere più chiaro nella quotidianità, al "Roman de renard" dove una volpe prendeva il posto del vescovo: la verità sotto forma di pazzia?
Il carnevale come rito di passaggio, dal mondo vecchio al mondo nuovo, sopravvivenza che resiste perfino nella nostra società, nei "cippi di sant'Antuono", falò per distruggere il vecchio e con le sue ceneri concimare il nuovo che ha da nascere.
Processo, esecuzione e morte di Carnevale (nominato Vincenzo), simbolo di ogni stortura, processato, valutato ignobile e cattivo, e distrutto per far nascere qualcosa di nuovo e migliore.
Retaggi di una civiltà contadina, quando il rapporto con la natura, gli alberi, i caratteri del mondo selvaggio erano ancora quotidiani e non ancora sollecitati e recuperati da associazioni ecologiste, e il terrore che gli alberi scheletriti dall'inverno non fossero capaci di tornare a nuova vita spingeva a riti magici, per sollecitare gli alberi spogli a rifiorire, a cacciare gemme, a rivivere, non foss'altro che per invidia dell'albero adornato e colorato portato provocatoriamente in processione, e furono gli "alberi di Natale" e i riti del maggio.
Viviamo noi oggi in una società cittadina, dove l'angoscia prodotta dalla secchezza degli alberi non è più un carattere della temperie umana perché gli alberi chi li vede più? chi ci ha più un rapporto quotidiano? e le piante sempreverdi che adornano i giardini pubblici non hanno questa drammatica alternanza di immagine di morte e immagine di sboccio di una nuova vita, questa sospensione della vita in attesa di una improbabile rinascita: che senso ha più?
Allora prendiamo, del carnevale, alcuni caratteri tipici, il passaggio dal vecchio al nuovo, ma il vecchio che è, può essere, un modo stantio di concepire i rapporti sociali, il considerare il mondo come terreno di conquista, e allora il carnevale diventa l'occasione per quelli che non hanno mai voce per dire la loro, per esprimersi, per dire quello che pensano di quelli che comandano, quelli che stanno sempre a galla per male che vada, quelli che non vanno mai a fondo: in poche parole, gli stronzi che, come si sa, galleggiano sempre sull'acqua della vita quotidiana.
Allora usiamo le maschere per esprimere una protesta sociale: il popolo che, una volta l'anno ha voce e può parlare, criticare le storture del sistema e gridare per dire i suoi valori, le cose in cui crede, ma sul serio, il dileggio per chi comanda senza averne i titoli né i meriti, l'ipotesi, rappresentata, di un mondo diverso e migliore.
Questo è il nostro carnevale: prendere alcune caratteristiche dell'antico rito di passaggio e riproporlo come valore per una allegra manifestazione del dissenso nella società attuale.
Le maschere come negazione dell'individualità a vantaggio dell'enfasi sull'archetipicità: Pulcinella archetipo del contadino espropriato dei suoi diritti e della sua dignità umana, nell'ambiente campano, Arlecchino archetipo del popolano ridotto a "servitore" nella società borghese, e così via.
I temi allora sono quello della quotidianità, riscattata dal suo grigiore per assurgere a paradigma delle contraddizioni, la gente senza voce che una volta l’anno può parlare e, se è il caso, perfino gridare le sue ragioni, inascoltata, perché il carnevale è effimero e poi, passata la festa, tutto torna come prima, ma è stato bello approfittare dell'occasione offerta dalla festa per immaginarsi che sia possibile e realizzabile un mondo diverso, basato su valori reali, su rapporti giusti, sebbene la inesorabilità della storia ricacci ciascuno nel suo loculo, nella sua casella, nella società di ogni giorno.
Ma per alcuni giorni si è potuto sognare e il sogno è seme di un lavoro quotidiano per cambiarla, questa sporca società, e, anno dopo anno, falò dopo falò, si può sperare che un giorno non ci sia più bisogno di cambiarla, ma si cominci ad intravedere una società diversa, nata da una coscienza giusta e coraggiosa e allora la società di cartapesta sarà quella vera, ancora una volta un apovolgimento.
E allora, per le strade non sarà passata solo una manifestazione di gente pazza e senza criterio, ma la prefigurazione di una società diversa, l'immagine di un mondo nuovo, da realizzare giorno per giorno con la lotta quotidiana contro le ingiustizie, l'immagine del futuro che noi vogliamo costruire, appunto "l'utopia per le strade".