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Note:



Nota 1. pag. 9.

Il Campo A.R.A.R.

Il "Campo A.R.A.R." era il più grosso insediamento di baraccati a Napoli nel 1967.
Stava a Poggioreale, di fronte al cimitero, compreso fra la Calata Ferriera, il macello comunale, un campo sportivo confinante con terreni agricoli e la ferrovia circumvesuviana. In origine deposito di residuati bellici, divenne dopo la guerra un insediamento di baraccati. I primi che vi si stabilirono vivevano del commercio di rottami di ferro, poi presero a costruire altre baracche, vendendole a chi veniva ad abitare nel campo, a un prezzo di l50 200 mila lire.

Le baracche
Quando ci arrivammo noi c'erano 186 baracche abitate.
Erano costruite con blocchi di pomicemento, col tetto piano su solaio di travi di legno o con una copertura di lamiera ondulata. Le dimensioni medie di una baracca erano di circa venti metri quadrati, ma ce n'erano di piccolissime e di grandi, sistemate come una vera e propria casa. Strade non ce n'erano, ma dividevano le baracche dei "vichi" di terra battuta, a lato dei quali scorrevano le acque bianche di scolo dei lavatoi, collocati all'esterno della baracche. Acqua corrente non ce n’era: veniva ogni giorno a distribuire l'acqua un'autocisterna del comune e si pagava una mancia agli uomini del camion. La provvista dell'acqua era conservata in grossi bidoni all'esterno delle baracche, coperti alla meglio per ripararli dalla sporcizia e dalle intemperie. Non tutte le baracche avevano un cesso. Dove c'era si doveva periodicamente far vuotare il pozzo nero da "parulani" (contadini) che ne versavano il contenuto nei campi vicini o lo portavano via per utilizzarlo in proprio come concime. C'era la corrente elettrica, a contatore, ma per ogni contatore c'erano due o tre baracche. Non si sa esattamente che tipo di abitazione le baracche fossero considerate dal Comune: gli abitanti non erano considerati "senzatetto" e se succedeva qualche sinistro il Comune mandava un ingegnere a valutare i danni e concedeva un sussidio, come se si trattasse di una casa normale.

I sottoproletari
Gli abitanti erano in maggioranza sottoproletari, gente che a Napoli vive dei piú diversi espedienti. C'erano anche operai che lavoravano alle dipendenze del Comune e qualche manovale, oltre a qualche operaio specializzato, che abitava in baracca per interesse personale, per risparmiarsi l’affitto di una casa o per altri traffici con cui arrotondava il salario (per es. uno faceva l'artificiere). C'erano pure uno o due di professione ladri, ma in generale la "moralità" del campo era ineccepibile, non c'erano prostituzione né contrabbando organizzati.

La micro emigrazione
La maggioranza degli abitanti erano finiti nelle baracche subito dopo il matrimonio per poter vivere senza litigare continuamente con i suoceri per la convivenza in un basso di tutta la famiglia. Buona parte erano immigrati dall'interno della Campania, nella speranza di trovare a Napoli migliori condizioni di lavoro, bloccati poi là dalla disoccupazione e ridotti a vivere di espedienti. Alcuni coltivavano i piccoli campi inseriti tra le baracche o confinanti col "campo Arar", producendo ortaggi e fiori da vendere davanti al cimitero.

Le matrici contadine
Restavano nella cultura del gruppo delle matrici di costumi contadini: la subordinazione delle femmine ai maschi, il dare del "voi" ai genitori, la necessità del contatto con la natura, il gusto di mangiare prodotti genuini e la tradizione delle conserve alimentari, l'indipendenza dalla "civiltà industriale".
Per la ristrettezza di spazio delle baracche la vita si svolgeva all'aperto tutta la giornata, soprattutto per i bambini, perciò parecchie baracche avevano affianco un recinto, in parte coperto da una tettoia, per proteggere delle intemperie la vita all'aperto.

L'umidità
Il carattere saliente delle baracche era l'umidità, oltre alla perenne ed estenuante insicurezza. Non c'erano fondazioni impermeabilizzate ai muri e quasi tutte le coperture facevano acqua, ma gli abitanti si ostinavano a tappare i buchi con qualche busta di plastica, perché non conveniva fare lavori più impegnativi, dovendo arrivare la casa da un momento all'altro, e continuavano a vivere nell'umidità. Di qui la diffusione dei reumatismi anche tra i bambini piccoli e di varie altre malattie, come la difterite e altre infezioni, che rendevano e rendono tuttora familiare agli abitanti il soggiorno in ospedale. Non c'è chi non ci sia stato almeno una volta, anche fra i ragazzi.

Altri abitanti
Circolavano nel campo, approfittando della mancanza di fogne, ratti e serpenti di vario tipo, e d'estate, ogni tanto, c'erano invasioni di cimici, oltre alle zecche che abitavano in permanenza sui cani, frequenti nella zona e semirandagi.
Le famiglie che si erano insediate per prime in baracca ci stavano da oltre vent'anni, dal 1948 alcune, altre se ne aggiungevano continuamente, nella perenne speranza che il soggiorno in baracca avvicinasse il miraggio della casa.

Imbrogli
Curioso era che il terreno era di proprietà del Comune, che l'aveva espropriato da un pezzo per ingrandire il macello. Gli eredi degli antichi proprietari avevano interesse a far durare l'insediamento dei baraccati perché così, scaduti i venticinque anni, il terreno, non essendo stato utilizzato, sarebbe tornato ai proprietari privati.
Uno studio approfondito del Campo Arar, con dati, statistiche e con le storie di alcuni dei più vecchi abitanti, è stato fatto da A. Venturini e pubblicato da "Il Tetto", n° 20-21, del giugno 1967.




Nota 2. Pag. 25.

LE LOTTE PER LE CASE

Le riunioni

Nel 1968 si cominciò a cercare di organizzare la lotta per le case, facendo riunioni nella baracca della nostra scuola, sia perché era l'unico locale comune disponibile, sia per cercare un rapporto della scuola con le lotte e la vita degli abitanti.
Le riunioni e le lotte furono incessanti e discontinue come ogni cosa sottoproletaria.

Si bruciano gomme
C'erano momenti di esasperazione che esplodevano in improvvise e incontrollate proteste, e allora si usciva dal campo per bruciare copertoni in mezzo alla strada.
C'erano delle spie in mezzo ai baraccati, per cui ogni volta i poliziotti arrivavano in tempo per prendere qualcuno, e si finiva con i processi per blocco stradale e con le multe.

I responsabili
Le riunioni miravano a chiarire obbiettivi precisi alla lotta e a individuare i responsabili delle mancate assegnazioni di case. Così si arrivò a fare qualche dimostrazione sotto l'edificio del Genio Civile, dove aveva sede la commissione di assegnazione degli alloggi, al Municipio e alla Prefettura.
Non hanno mai partecipato tutti alla lotta: chi nelle baracche ci stava bene, ovviamente non veniva, per guardarsi i suoi interessi, anche se, a parole, tutti volevano la casa. La maggioranza era incapace di ragionare sulla sua esperienza, di scoprire le cause della sua situazione e di condurre una lotta con costanza, fino alla vittoria.

Il fatalismo
Ci fu perfino chi ebbe l'idea di regalare all'assessore ai lavori pubblici un bronzetto, per impetrare l'ottenimento delle case. Il che fa luce sul perdurare di una concezione magico superstiziosa dell’“autorità”, vista come una sorta di santo da pregare e implorare, ma contro cui nulla si può.
Per una effettiva maturazione di coscienza ci sarebbe voluto un lavoro più lungo e profondo e forse, in quelle condizioni, impossibile.

A che serve lottare
Con le lotte, tuttavia, o almeno alcuni, arrivarono ad una certa maturazione, almeno al coraggio di una azione comune. Alcuni amici, che si occupavano di spiegare come andava condotta la lotta e contro chi, partecipavano alle dimostrazioni e, per incarico di tutti, facevano parte della commissione che saliva dalla strada a parlare con l'autorità. Così almeno i più grossolani tentativi di imbrogliare la povera gente approfittando dell'ignoranza furono sventati e ci si rese conto che lottare serviva.
Una parte dei baraccati, però, restò inerte rifiutandosi di partecipare alle dimostrazioni, per liti con qualche altro che vi partecipava, per paura o semplicemente per indolenza.

L'evasione nella fantasia
L'atteggiamento comune, a sentirli parlare, era quello dell'evasione nella fantasia.
Parecchi dichiaravano che si erano ormai scocciati di stare nelle baracche e che se ne sarebbero andati, come se ci stessero apposta, per loro libera scelta e non perché ce li mantenesse la società.
Simili atteggiamenti, oltre ad aprire un altro squarcio sulla "cultura" del sottoproletariato, denunciano una grossa difficoltà del sorgere della coscienza di classe: il rifiuto della realtà, il chiudere gli occhi per non vedere.

Strumento di oppressione
È su questa tendenza all'evasione nella fantasia che si innestano i mezzi di persuasione del sistema, la televisione, i fumetti, il "tifo" per renderla cronica e addormentare definitivamente le coscienze.

Mezzo di liberazione
Su questa tendenza si innestano pure i nostri racconti, ma nel tentativo di sfruttare una tendenza comune per un discorso ideologico e liberatorio.
Allora non si tratta più di evasione della realtà nella fantasia, ma piuttosto di un lavoro della fantasia per migliorare la realtà.
Data una situazione vissuta di ingiustizia, di cui non si ha coscienza, il racconto la ripresenta in maniera che sia osservabile e giudicabile come dal di fuori; addita le difficoltà concrete all'azione e alla lotta comune e, presentando come desiderabile il risultato, induce a rimuovere le difficoltà contribuendo a favorire l'azione e la lotta.

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