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La casa popolare

La palazzina numero tre delle case ISES di Secondigliano aveva anche lei una storia da raccontare. Era nata in un mucchio di carte, nell'ufficio della commissione per le case del Comune.
Non era stata una nascita facile: c'era gente che non voleva farla nascere, perché non potevano vedere la gente che ne aveva bisogno.
Ma, dopo avere fatto passare molto tempo, anche quelli che non volevano dovettero far costruire le case.
Ma a Napoli la gente senza casa era troppa e perciò quando le palazzine non erano ancora finite le andarono ad occupare.
Anche la palazzina numero tre fu occupata: invece dei muratori ci entrarono delle persone che tanto erano disperate che cercarono di abitare là dentro. Si gelavano la notte perché non c'erano i vetri alle finestre; per lavarsi dovettero arrangiarsi un attacco dell'acqua perché non c'era e dovettero anche scavare dei pozzi neri per fognatura.
La palazzina numero tre non sapeva se ciò che le capitava era bene o male, ma era contenta lo stesso perché era piena di gente che le si era affezionata e la curava. Il brutto era che non sapevano che fare nemmeno quelli che comandavano: essi avrebbero voluto cacciare gli occupanti ma non erano capaci. Il potere li aveva fatti diventare senza cuore e incapaci di capire gli uomini.
Quelli della palazzina numero tre non sapevano niente di chi comandava e credevano che al Comune ci stesse una specie di Babbo Natale, che faceva i regali ai cittadini perché gli erano simpatici.
Poi, col tempo, capirono che le autorità non gli volevano bene e cominciarono ad organizzarsi. Ma quando si erano quasi uniti tutti, le autorità li divisero di nuovo, mettendoli uno contro l'altro. Allora gli occupanti se ne dovettero andare e al loro posto entrarono nella palazzina numero tre i baraccati.
Si stava allo stesso punto di prima: i baraccati non sapevano nemmeno che cosa significasse lottare insieme. Erano stati male per molti anni, ma questo non aveva insegnato loro niente: non avevano ancora una coscienza di classe. Perciò vivevano ognuno per i fatti suoi e non si accorgevano che i guai di ciascuno erano gli stessi degli altri e che per risolverli bisognava lottare insieme.
Erano come pecore senza un pastore.
La palazzina numero tre era fatta di mattoni e cemento e non poteva fare niente per aiutare quelli che la abitavano. Non poteva nemmeno capire bene che cosa succedeva: non era che una palazzina e sapeva solo le cose che sanno anche le pietre, come dice il proverbio. Se avesse potuto parlare, avrebbe detto parecchie cose che neanche gli abitanti sapevano: come era nata, quello che le era successo, come vivevano i suoi abitanti.
Ogni suo pezzo poteva dire qualche cosa: le camere avevano ancora i muri senza pittura perché nessuno voleva finire i lavori. Le scale erano ancora senza ringhiera per lo stesso motivo.
Non succedeva niente: tutti continuavano a vivere per i fatti loro come se questi guai non fossero fatti loro.
Ogni tanto dalle scale cadeva un bambino. Allora i grandi facevano un poco di ammuina, ma senza uscire dal rione, così dopo un poco di tempo ne cadeva un altro, perché nessuno aveva aggiustato niente. Ci voleva qualcuno che aiutasse quegli uomini a capire in che condizioni vivevano.
Ma ogni volta che arrivava qualcuno ad aiutarli loro lo cacciavano, perché invece di farsi aiutare volevano che quelli lottassero al posto loro, così restavano a casa a grattarsi la loro paura e ad aspettare che gli cadessero in bocca i maccheroni, invece di cucinarseli. Così il tempo passava e non si aggiustava niente e la gente stava sempre peggio.
Fin qui è quello che la palazzina numero tre sapeva perché c'era stata in mezzo pure lei. Tutti sanno che le palazzine non sanno parlare, né insegnare agli uomini che cosa devono fare per stare meglio.
Questa volta però, forse perfino le pietre della palazzina potrebbero insegnare agli uomini che per vivere meglio bisogna imparare dalle cose che ci succedono e che come le pietre devono stare insieme per fare la casa, gli uomini devono amarsi per fare la società.

Scuola 128, 2-12 ottobre 1970.