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Introduzione - II parte

1968

Muratori, falegnami e affini

Per rompere il ghiaccio, organizzammo una festicciola all'Epifania, attorno ad un presepe di baracche, e cominciammo i lavori.
Non c'erano banchi, noi non avevamo soldi, e la baracca era alquanto sinistrata.
Chiedemmo al direttore della scuola se poteva "prestarci" i banchi fuori uso, ammucchiati nello scantinato della scuola, ma rifiutò dicendo che erano "inventariati" e quindi non si potevano "alienare". Dall'Epifania al 24 gennaio del 1968 si è aggiustata la baracca e si sono fabbricati una trentina di sgabelli. I materiali usati furono dei correnti di cm. 2,5 per cm. 4 e dei fogli di truciolato semifradici lasciati dal Venturini nella baracca.
Si era pensato di usare delle tavolette per scrivere sulle ginocchia stando seduti, invece, appena entrati, i ragazzi si inginocchiarono sulle tavolette e usarono gli sgabelli a mo' di tavolino; perciò si dovettero costruire anche dei tavolini.

Inizia il doposcuola
La baracca, dopo la riparazione di un angolo e mezzo scarrupato, fu imbiancata ed ebbe un soffitto di tela di sacco dipinta, al di sotto del tetto di lamiera ondulata. Al centro c'era dipinto un gran sole e poi qua e là cerchi e quadrati bianchi, neri e rossi. I sacchi si comprarono a Resina, li cucimmo e li inchiodammo alle travi del soffitto. E si cominciò il "doposcuola".

Primo programma
Avevamo letto "Lettera ad una professoressa" della Scuola di Barbiana, ma avevamo le idee un po' confuse e speravamo che si sarebbero chiarite col tempo, conoscendo meglio i ragazzi. Intanto ci pareva già utile cercare di recuperare i falcidiati della scuola e, anche se in piccolo, cercare di neutralizzare questa capacità della scuola di Stato di ricacciare la gente nella loro ignoranza.
Si doveva fare quello che non fa la scuola, occuparsi di quelli che stavano più indietro e non andare avanti se tutti non avevano capito. In più si cercava di trarre spunto dai "compiti", almeno con i ragazzi più grandi, per parlare di argomenti trascurati di solito dalla scuola. Il sabato si cercava di parlare degli altri argomenti emersi durante la settimana o suggeriti da noi, ma in genere il tentativo falliva, perché non si riusciva ad interessarli e spesso il discorso si faceva troppo difficile.
Si apriva la baracca alle 4 di pomeriggio e si faceva il doposcuola ai ragazzi di seconda elementare fino alle cinque, poi fino alle sei o sei e mezza si lavorava con quelli della terza e fino alle otto e mezza-nove con quelli di quarta e quinta e delle classi medie, che complessivamente erano di meno.
Restavano fuori quelli della prima elementare, per i quali ci voleva più cura e più tempo, e allora si facevano venire solo il sabato, al posto del primo turno che veniva con il secondo.
All'inizio erano più di sessanta ragazzi, ma col tempo andarono un po' diminuendo.

Difficoltà: i "collaboratori"
Nostro intento era di "far capire" tutto quello che si studiava, ma i ragazzi cercavano di farsi fare i compiti, senza capire niente, solo per risparmiare fatica. Di tanto in tanto veniva qualcun altro a collaborare, ma discontinuamente e con diverse disponibilità e capacità, ed i ragazzi erano pronti a fiutare l'occasione e ad approfittare della loro inesperienza o accondiscendenza per ottenere da loro quello che non riuscivano assolutamente ad ottenere da noi. Il fatto era del tutto controproducente.
Visti gli effetti negativi della discontinuità dei collaboratori, preferimmo restare soli, per favorire un rapporto più profondo con i ragazzi e una maggiore continuità di insegnamento.
Ben presto ci rendemmo conto che il lavoro incontrava ostacoli che non avevamo previsto e che avremmo potuto superare solo con un impegno a tempo lungo.

"L'autorità"
Il fatto, per esempio, che noi non li picchiassimo, come pareva che fosse all'ordine del giorno a scuola, invece di acuire una certa loro responsabilità, era inteso come una specie di autorizzazione a fare il loro comodo, e a picchiare noi, nei giochi che si finiva col fare e che più o meno normalmente diventavano maneschi. La nostra "autorità" nei loro confronti era praticamente inesistente, anche se si rifiutavano di chiamarci per nome, come chiedevamo, per chiamarci, invece, "professori". Del resto chiamavano "professore" chiunque capitasse al Campo, e dall'aspetto e dalla parlata si vedesse che aveva studiato più della quinta elementare.

Le pietre
Quelli che facevano i loro comodi e non intendevano ragioni né rispetto per gli altri né generici appelli all'educazione, erano cacciati per quel giorno o per uno o due giorni. Allora cominciavano a tirare pietre sul tetto di lamiera, determinando botti improvvisi, da far saltare sullo sgabello chi stava nella baracca. Le pietre le tiravano per "sfizio" anche altri di passaggio, che nemmeno si conoscevano.
In genere si usciva a cercare chi avesse tirato le pietre, inseguendoli nel caso si fossero avvistati e chiedendo poi loro il motivo, che generalmente ignoravano. Erano capaci di negare di aver tirato le pietre, anche se erano stati colti con la pietra in mano, agendo secondo il buon vecchio proverbio napoletano: "tira 'a petrella e annascunn' 'a manella".
Qualche volta, se si riusciva a raggiungerli, si accompagnavano a casa, per informare i genitori, i quali in genere ci aggredivano per aver spaventato il figlio, oppure ci invitavano a picchiarlo noi o lo picchiavano appena si arrivava a casa, senza nemmeno sapere di che si trattasse né aspettare spiegazioni.

Chi eravamo per loro
Sebbene si facesse scuola ogni giorno, anche nei giorni di festa, tranne la domenica, e ci avessero visto fabbricare tavoli e sgabelli e fare i muratori ed i falegnami, erano ancora convinti che fossimo pagati dal Comune e che facessimo quel lavoro per guadagnare punti, una sorta di "rodaggio" per la carriera normale! Da parte delle famiglie poco aiuto si poteva ottenere, anche perché non si rendevano conto dei problemi posti dalla scuola, e poco ci conoscevano.

Noi e la Scuola di stato
Da parte della scuola pure aiuto o collaborazione non se n'ebbe: la collaborazione che noi cercavamo tendeva a mutarsi in ostilità o boicottaggio o denigrazione.
Si tentò di parlare con i maestri, ma non ci vollero ascoltare: invece di stare a sentire che cosa volevamo, ci aggredivano con un cumulo di proteste, farfugliando di "metodi diversi di insegnamento", di una loro presunta preparazione pedagogica, ecc.

La "pedagogia aggiornata"
Noi la conoscevamo bene la loro preparazione pedagogica: comprendeva tra l'altro il prendere il caffè durante le ore di lezione e far lavare le tazze alle bambine, con la scusa che "così imparavano a fare le brave donne di casa". La maggior parte del tempo di scuola pare che la passassero a chiacchierare fra loro, lasciando le classi affidate all'arbitrio del "capoclasse", i ragazzi più grandi e robusti, con il diritto di picchiare gli altri per farli stare zitti. A volte era mandato il bidello a mantenere tranquilli i ragazzi, a suon di botte, come è accaduto in nostra presenza. Questa secondo loro era "pedagogia aggiornata"!
Il direttore, invece, cercava di usarci come spie per risparmiarsi il controllo dei maestri, poi riferiva loro le nostre critiche, ed essi si vendicavano sui ragazzi, che quindi non venivano più al doposcuola o dovevano venirci di nascosto dai loro insegnanti.
Così passò il primo anno di scuola, senza portare troppi frutti. D'altra parte si era partiti con le idee un po' confuse.
Nei mesi estivi si cercò di rafforzare almeno una certa amicizia in germe con quelli che continuavano ancora a venire da noi. Ci venivano ormai solo ragazze: i ragazzi, appena finite le scuole, andavano a lavorare come garzoni nei bar o nelle cantine o da qualche "mastro" o andavano per i campi a spasso, a giocare e a divertirsi.
Per un po' si resistette al caldo, nella baracca, e si stette lì dentro a leggere. Leggemmo "Le avventure di pinocchio" e delle favole di Andersen. Altre letture non le sopportavano e ci pareva che fosse importante comunque tenere un libro in mano per un po'.
Ciò che più piaceva era rincorrersi attorno alla baracca, fino a stancarsi, a darsi paccheri, soprattutto dar paccheri a noi che eravamo "grandi", e non gli pareva vero.

Le gite estive
Diventato insopportabile il caldo, sotto il tetto di lamiera, si ebbe l'idea di andare a fare delle gite nei dintorni, per leggere all'aria o per fare passeggiate. All'inizio pareva che andasse bene, ma poi si arrivò a liti terribili e lamentele e musi e accuse, e si dovette smettere.
Le gite durarono per quasi tutto il mese di luglio del 1968. Si andò al bosco di Capodimonte, sul Vesuvio, al lago d'Averno, alla Solfatara di Pozzuoli, al giardino zoologico, a Caserta, a Capua, a Castelvolturno, sul Faito, ecc.
Ci spostavamo sulla "500" di Mirella, in sei o sette (quattro ragazze dietro e una in braccio avanti).
Ben presto sorsero difficoltà perché una delle ragazze (7-8 anni) doveva viaggiare in braccio al "professore" per cui si ridussero a quattro.
Di qui liti per decidere chi doveva venire, con musi che duravano tutta la gita, e ripicche fino al giorno dopo.
Dovendo "uscire" si vestivano per bene, poi si sentivano a disagio per via dei vestiti "buoni" che si sporcavano, ed era una lagna continua, per le spine in campagna, per le pietruzze sul Vesuvio e perché si faceva tardi quando si doveva tornare. Si ricordavano dell'orario solo quando si era già in macchina per il ritorno, dopo che non ci avevano badato per tutto il pomeriggio, nonostante i nostri avvisi. La sera avrebbero voluto volare a casa, per paura dei padri che tornavano dal lavoro e non le trovavano in casa, tutti timori ingiustificati.
Le gite però ci aiutarono parecchio a capirle, e forse anche a toglierci qualche illusione, quanto alla possibilità di stabilire subito una reciproca, sincera amicizia o addirittura dell'affetto.
Ci fecero conoscere certi pregiudizi, certi modi di vita, certe fissazioni, certi complessi, ci misero di fronte a certe calunnie, insomma furono utili; ma, alla fine di luglio, decidemmo di evitare una utilità eccessiva e sospendemmo le gite.


Scuola 128, aprile-maggio 1970

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