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Introduzione - III parte

1968-1969

Riprendemmo ad ottobre per il nuovo anno scolastico. C'erano parecchie cose che sapevamo in più e qualche idea un po' più chiara e il desiderio di lavorare con più ordine.

Le iscrizioni
Decidemmo di accettare i ragazzi solo dietro iscrizione fatta dai genitori, per prendere qualche contatto con le famiglie, almeno all'inizio dell'anno, e per spiegare personalmente alle madri o almeno ad un adulto della famiglia che scopo della nostra scuola non era fare i compiti ai figli, ma insegnare ciò che la scuola di Stato non insegna (i diritti dei lavoratori, la necessità di unirsi per lottare insieme, come stare insieme, ecc.) e per esigere che i ragazzi venissero tutti i giorni e che i genitori ci aiutassero in questo lavoro. Spiegammo pure che non eravamo pagati da nessuno e che facevamo la nostra scuola perché volevamo aiutarli a capire di essere vittime dell'ingiustizia e ad uscire dalla situazione in cui li aveva messi la società. Non ci capirono troppo e non tutti "ebbero il tempo" di venire a parlare due minuti con noi, sebbene ci fossero pochi metri dalla loro baracca alla nostra e noi stessimo là per alcuni giorni dalle cinque alle otto di pomeriggio, solo per le "iscrizioni" e per parlare con loro.
Parecchi si fecero vivi dopo un mese o due, senza preoccuparsi del ritardo, e vennero a patire l'iscrizione dei loro figli, che, accettati dietro lacrimose insistenze, dopo tre o quattro giorni scomparivano di nuovo, o addirittura dopo l'iscrizione non si facevano proprio vedere a scuola, nemmeno per un giorno.
Il discorso sul fatto che non fossimo pagati li lasciava del tutto indifferenti, o era interpretato come una richiesta di un contributo.
Si andò avanti più o meno come prima, anche se con un po' più di ordine.

Capricci e confusione
Un sacco di capricci delle varie ragazzine caratterizzò questo periodo.
Per imparare "le cose che non insegnava la scuola", si erano portati dei libri e si curava di farli leggere dopo la correzione dei compiti; ma loro avrebbero voluto leggere solo le favole e, se accettavano di leggere, scorrevano le parole senza cercare di capire e non chiedevano mai il significato delle parole che non conoscevano.
Succedevano storie pure per ottenere che facessero i compiti a casa, lavorando da soli, in modo che al doposcuola si correggessero

soltanto e ci fosse tempo per parlare di altre cose, come avevamo chiesto anche ai familiari all'iscrizione.
Altre storie per la correzione dei compiti: ognuna preferiva uno di noi due ed esigeva di averlo a disposizione appena entrata, senza voler capire che non era possibile, perché noi eravamo solo due e loro molte.
Si cercò di leggere il giornale qualche volta, ma non ci si riuscì per il chiasso.
Il chiasso e l'ammuina sono il ricordo più tenace di quel periodo.

Le "leggi"
Si stabilirono allora le "leggi" per ogni turno, per regolare l'andamento delle cose. Avremmo voluto che le stabilissero loro per responsabilizzarli, perciò chiedemmo che dicessero cosa si aspettavano dalla nostra scuola, ma non si riuscì a venire a capo di niente.

Espressero solo desideri che erano nella direzione dei loro capricci o erano la ripetizione pappagallesca e acritica delle cose che dicevamo noi.
Si finì col decidere noi alcune regole e col chiedere il loro parere. Furono d'accordo su alcuni punti e si scrissero le "leggi" e si appesero al muro.
Successe però che non riconobbero più le leggi, né per averle decise insieme si sentirono vincolati ad osservarle, e si dovette continuare con le solite espulsioni ripetute.

Il diario
Una novità del nuovo anno fu che incominciammo a scrivere il diario della scuola, giorno per giorno, annotando oltre ai fatti successi nella scuola, le cose che si erano venute a sapere della gente del Campo, la vicenda della lotta per avere le case, ecc.
Non eravamo ancora soddisfatti di come andava la scuola, perciò, dopo un ennesimo "appiccico" con i ragazzi, per le presunte ingiustizie perpetrate da noi riguardo alla precedenza nella correzione dei compiti, o per qualche espulsione apparsa ingiustificata, si decise di cambiare le cose.

Il nuovo corso
Da allora si parlò prima su qualche argomento che per noi era importante e poi si guardarono i compiti.
Si cominciò a leggere la Costituzione, commentando gli articoli e mettendoli in rapporto con fatti della vita di ogni giorno, di cui si aveva esperienza.
Si ritentò di leggere il giornale, ma non ne eravamo ancora troppo capaci.
Volevamo anche comunicare loro i valori del cristianesimo che ci spingevano a fare la scuola, riscoprendone la forza rivoluzionaria.
Perciò cominciammo a seguire, per quanto era possibile, il "Catechismo dell'Isolotto".
Così si andò avanti fino alla fine dell'anno scolastico, o meglio fino alla metà di agosto, perché la nostra scuola continuò fin allora.

Si leggeva la costituzione due volte la settimana, due volte il catechismo dell'Isolotto, un giorno si leggeva qualche libro e il sabato si proiettavano diapositive di pittura.
La novità delle proiezioni affascinò i ragazzi per un poco, ma col tempo alcuni si scocciarono e cominciarono a boicottarle.

L'illuminazione della baracca
Per il proiettore serviva la corrente elettrica.
La vicenda della luce elettrica è pure indicativa.
Il primo anno ci aveva concesso l'attacco della luce la famiglia di una baracca vicina (bisognava pagare un "deposito" di ventimila lire per avere il contatore e non avevamo questa somma disponibile), finché una lite fra ragazzi finì con l'improvvisa sospensione del prestito della corrente, essendosi individuata in noi la causa di tutto il chiasso dei dintorni. Continuavano a piovere pietre sul tetto e tutto intorno e, al solito, la colpa era nostra, perché "quando non c'era questa scuola si stava tranquilli", ecc.
Da allora cominciammo ad usare la lampada a gas, con la bombola.
Quando, però, si pensò di fare le proiezioni, serviva di nuovo la corrente elettrica, anche se solo un'ora o due la settimana. La famiglia di prima non ce la volle più dare, un'altra famiglia di fronte nemmeno, e finì per darcela il sarto che abitava dietro la nostra baracca: fatto insperato, perché lui non mandava i figli alla nostra scuola ed era quello che protestava di più per le pietre che, sbagliando bersaglio, piovevano sulla sua casa, per il chiasso dei ragazzi e per le nostre urla che cercavano di imporre il silenzio o cacciavano fuori qualcuno.

Reazioni al nuovo corso
Le ragazze cominciarono a protestare contro il nuovo ordine del doposcuola, dicendo che le cose che volevamo imporre loro non erano adatte alla loro età, e tentarono una specie di sciopero, o almeno si assentarono apposta più spesso.
Col finire dell'anno scolastico andò diminuendo il numero di quelli che frequentavano, e la continuazione della nostra scuola era più che altro occasione di sfottò.

Seconda estate
Durante l'estate si lesse qualche libro che fosse a mezza strada fra il racconto e un impegno più serio di studio della realtà. Prima si era letto "La diga di Roccamena" di Lorenzo Barbera, ma i brani raccolti dalla viva voce dei paesani riuscivano poco graditi per l'intonazione siciliana, e i brani di riflessione (storia della diga e del progresso verso la collaborazione nel paese) riuscivano pressoché incomprensibili. Tuttavia preferivano che si leggesse il libro piuttosto che si parlasse, perché quando si leggeva non li facevamo scrivere, mentre gli altri giorni, dopo che si era parlato, dovevano scrivere quello che avevano capito, rileggere ad alta voce e sorbirsi di nuovo le spiegazioni per quanto risultava capito male o a metà. Si cercò di leggere insieme "Lettera ad una professoressa", ma alcuni se ne andarono e gli altri seguivano poco.
Si finì col leggere i "Quaderni di San Gersolè" che sembravano utili per imparare ad osservare con attenzione la realtà, fatto cui non erano abituati.

I disegni
Dall'inizio dell'anno si era ripreso a far fare dei disegni, ma non più con i colori terrosi diluiti con acqua, come nella vecchia scuola, perché acqua non ce n'era e per averne un poco bisognava chiederne a qualche famiglia. Si fecero i disegni con i pastelli ad olio, su carta da ciclostile, e si fecero pure ogni tanto dei collages, con carte e stoffe colorate. Un amico che lavorava in un negozio di tessuti ci aveva portato dei ritagli e dei campionari vecchi.
I disegni servivano a completare i rudimenti di educazione da noi impartiti, con l'importantissimo uso della facoltà creatrice, esercitata in libertà assoluta.
Impedivamo in genere che si copiasse da libri e da altre illustrazioni.
Le opere creative sono ottimi tests, che servono a diagnosticare gli scompensi della personalità dell'autore e le carenze affettive di cui è vittima. Dal punto di vista estetico pure ci sarebbe molto da dire, di questi disegni; bisognerebbe però fare un discorso a parte, data la mole del materiale: in tutto l'anno avremo raccolto un diecimila disegni e alcuni sono bellissimi e hanno scritte dietro delle storie inventate dai ragazzi.
C'era anche un uso pratico dei disegni: tenevano occupati i ragazzi mentre aspettavono il loro turno per la correzione dei compiti o li facevano restare tranquilli e per più tempo nella scuola, con un oggetto scrivente in mano.
Con parecchi i disegni servivano anche a rompere il ghiaccio. Anche per questo continuiamo ancora a farli fare. Il loro numero è spaventoso.
In generale i disegni migliori sono quelli dei più piccoli, mentre la vena va inaridendosi col crescere dell'età ed i soggetti si vanno facendo meno spontanei ed efficaci, a parte alcuni casi eccezionali in cui, invece, la vena è conservata e diventa allora ancora più ricca e viva.
Con i piccoli si osserva un perdurare dello stadio astratto e un ritardo della comparsa della rappresentazione della figura umana, come per una nostalgia di una vera infanzia mai goduta.

I racconti
Con i più piccoli, della seconda e della terza, si cominciò a dettare dei racconti.
Per loro era importante imparare a tenere la penna in mano e abituarsi a scrivere con un po' meno di errori le cose che li interessassero.
I libri di scuola facevano pena, zeppi come erano di termini incomprensibili. Quando riportavano un termine dialettale, era di quello del nord, ma in genere usavano un italiano sterile, disinfettato, che non è la lingua di nessuno perché pretende di essere la lingua di tutti. Non parliamo poi dei contenuti, penosamente grigi, del più stupido conformismo, quando non tradivano gli interessi di qualcuno (vi si trovava la pubblicità della Cirio, della Fiat, ecc.).
Non ci restava che inventare dei racconti, fatti su misura dei ragazzi, con i termini più espressivi del dialetto italianizzato.
Il primo racconto fu quello del bruco Ferdinando, inventato per scherzo l'estate del 1968, per svolgere un "tema per le vacanze" sul riassunto di un racconto a piacere.
L'anno seguente se ne inventarono altri, prima saltuariamente, per fornire occasione di scrivere di più anche ai più grandi, poi dettandoli con una certa continuità ai più piccoli.
Oltre che all'apprendimento di un italiano un po' meno impersonale, i racconti miravano a comunicare in forma più accessibile certi valori: la collaborazione reciproca, la necessità di unirsi per lottare insieme, l'affetto per le persone e per gli animali.
Gli scopi forse non sono stati raggiunti del tutto, per la solita discontinuità di frequenza, per cui pochi ragazzi seguivano il racconto in corso fino alla conclusione. E questo è uno dei motivi per cui si è voluto stamparli, affinché almeno un libro lo conoscessero bene, per averlo visto nascere.
Le date sono segnate in fondo ad ogni racconto e servono pure a vedere un po' come andavano le cose in quel periodo: un altro scopo dei racconti, infatti, era quello di commentare le cose più grosse che succedevano nel Campo.
Si continuò nella baracca n° 128 fino alla metà di agosto.
Come al solito i ragazzi erano andati man mano sparendo, chi a lavorare come garzone in un bar o in una cantina o in una salumeria, chi per andare a giocare al sole o nella vasca delle gramigne, a prendere ranocchie o a raccogliere ferro vecchio in giro.
Restavano soltanto le ragazze che non andavano a lavorare, e mano a mano aumentava il numero dei ragazzini al di sotto dei cinque anni, che ci portavano anche i genitori più ostili, per levarseli di torno per un poco. Più di una volta siamo restati fino a tardi a guardare questi bambini in attesa che tornassero i genitori che erano "andati a Napoli". I più piccoli si abbandonavano a gran pianti, vedendosi senza la protezione della famiglia e non si sapeva come calmarli, per cui ci fu pure chi disse che noi picchiavamo i bambini.
Aumentò pure lo sfottò delle ragazze collocate lungo la strada che si faceva per arrivare alla baracca, nonché la pioggia di pietre sul tetto.


Scuola 128, aprile-maggio 1970

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