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Il banco di scuola

Nello scantinato della scuola di Secondigliano c'era un vecchio banco di legno, grigio e nero, pesante e mezzo sfasciato.
Sulla tavoletta c'erano incise parecchie cose. In un angolo c'era scolpito a grandi lettere: "ANTONIO ESPOSITO 1947". In mezzo c'era un fosso e da sotto alla pittura nera usciva il legno giallo, tutto sporco. Qua e là c'erano tanti buchetti, fatti con i pennini dai ragazzi che avevano usato quel banco a turno.
Il banco si sentiva triste e abbandonato, tutto solo, sotto la polvere.
Quasi quasi il banco pensava.
Sul suo sedile erano passati molti ragazzi ed erano stati quasi tutti bocciati, poi, dopo molte bocciature, non erano più andati a scuola perché i genitori non capivano a che cosa potesse servire la scuola: essi non ci erano andati e non sapevano né leggere né scrivere e non si sentivano male per questo.
Così la scuola cacciava i figli della povera gente: i maestri dicevano alle madri che i figli non avevano cervello e le madri ci credevano e non mandavano più i figli. Così cresceva un popolo di ignoranti e si preparava l'impero della miseria.
Il banco ne era dispiaciuto, ma non poteva farci niente.
Poteva solo pensare e ricordare.

Era fatto di tavole di pino. Le tavole le avevano tagliate da tronchi certi uomini che vivevano in montagna, parlavano un dialetto strano e avevano i vestiti tutti stracciati perché erano pagati una miseria.
Il banco, invece, era stato pagato molto dalla scuola ad un grosso signore che i montanari nemmeno conoscevano. Anche i ragazzi che si erano seduti sul banco erano figli di povera gente, andavano vestiti puliti ma stracciati e parlavano in dialetto, invece la scuola voleva che parlassero italiano. Essi non sapevano e perciò erano bocciati.
Il direttore era un tipo grosso come quello che aveva venduto il banco: erano gente che non potevano vedere i poveri perché essi erano grassi e ricchi e i poveri non li capivano. Perciò i figli dei poveri li bocciavano ma non sapevano il perché: credevano di farlo per il loro bene. Così opprimevano i poveri ed erano malvagi, ma credevano di essere buoni.
Il banco, invece, aveva capito subito che quella era una scuola malamente perché, invece di aiutare i ragazzi li cacciava. Lui i ragazzi li conosceva bene e sapeva come essi erano buoni e conoscevano tante cose, ma purtroppo nessuna di esse serviva in quella strana scuola, perciò se ne scappavano appena potevano.

Al banco si erano affezionati perché sembrava un carro armato, ma non ci potevano giocare: ci giocavano solo negli intervalli, la mattina appena entrati e un poco prima di uscire.
Il banco non sapeva come fare per aiutare i ragazzi: non gli venivano le idee.
Così il banco si rodeva, ma veramente non era lui che si rodeva, erano i tarli: in mezzo alla polvere bianca che stava sul pavimento si vedevano macchiette di polvere gialla uscita di buchi dei tarli.
Ormai l'avevano tutto scarvottato.
Quando i tarli non gli davano tanto fastidio il banco si sorprendeva a sognare, come aveva visto fare ai ragazzi durante le lezioni più inutili.
Sognava di una scuola buona, dove si insegnassero cose utili, come vivere da fratelli, per esempio, invece delle poesie cretine sulla primavera e delle altre scemità.
I ragazzi ci andavano con piacere perché si sentivano amati e il banco era rispettato e contento di lavorare nella scuola.
Ma da quei sogni lo svegliava sempre improvvisamente il rodere di un tarlo e il banco si sentiva di nuovo solo e abbandonato.


Scuola 128, 27-31 luglio 1970.

Il banco di scuola