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La quotidianità: un luogo di sperimentazione dell'utopia

"Pronto, sono un compagno di Montecalvario: vorremo la vostra presenza per una iniziativa che abbiamo idea di organizzare dopodomani..."
"Pronto, domani siete disposti a fare un murale al Frullone?"
"Pronto, inauguriamo una nuova sezione del partito, verreste a fare un po' di animazione per strada..."
"Pronto, domani abbiamo organizzato una festa per l'ambiente, ci piacerebbe che veniste anche voi perché ci hanno detto che siete bravi e sapete inventare qualcosa..."
Il telefono squilla nel bel mezzo del film serale alla TV (atteso da un pezzo e osservato con senso di rilassata attenzione) per proporre o richiedere o esigere le iniziative più disparate, ma sempre urgenti, a rotta di collo.
IL "113" DELL'ANIMAZIONE CULTURALE O POLITICA!

Ci si organizza e si parte, e ci si trova, noi in dieci, ad "animare" una manifestazione per il Cile libero, al consolato del Cile, che vede impegnate per strada in tutto trenta persone. Altra volta ci siamo trovati in quattro gatti a pubblicizzare una manifestazione per la pace a Casoria che poi era una festa di tesseramento della FGCI mascherata.

Ogni volta discussioni: non ci dobbiamo più far fare fessi, dobbiamo esigere che vengano a parlare e programmare il nostro intervento con tutto il gruppo, ecc. Ogni volta si finisce per cedere, ove ci sia garantita almeno la possibilità di parlare liberamente, senza censure, ove l'efficacia del messaggio, un murale grande quanto tutta la parete del casermone scuola, fa chiudere un occhio sul fatto che l'amministrazione comunale non sia proprio di sinistra né delle nostre idee.

Ci si trova allora davanti a un muro di tufi sconnessi che tende a sgretolarsi dove si insiste col pennello, a fare acrobazie per raggiungere le parti alte perché è incredibile come sia difficile trovare una scala che non sia sdentata, ad arrampicarsi su ponteggi senza ancoraggi al muro, traballanti da far venir il mal di mare, ecc...
Poi si scopre che il comitato organizzatore che ha accettato a malincuore di rimborsare le spese per un murale che ci ha tenuti impegnati in otto per due giorni sotto il solleone e ci ha chiesto poi candidamente se non si poteva "risparmiare qualcosa" sulle duecentocinquantamila lire pattuite, ha speso sei milioni per due cantanti per una serata e il paragone fra la cantata superpagata ma effimera, di una sera, e un murale che coinvolge la gente e dura sul muro per anni fa incazzare parecchio.

La volta dopo ci risiamo, e c'è chi privilegia l’immagine alla realtà, come il maestro che durante il murale con i suoi ragazzi non aveva toccato un pennello e si fece poi fare la fotografia con un pennello (asciutto) in mano per mandarla agli amici.

E le censure: la bandiera americana affianco ai missili non si può fare perché potrebbe incazzarsi il sindaco democristiano, e pensavamo che il maestro "compagno" scherzasse invece faceva sul serio, e dopo una settimana di insistenze sostituimmo alla bandiera USA quella del Sudafrica, e forse perché sconosciuta, forse perché indifferente alla DC si è finalmente chetato! E che dire della falce e del martello, inseriti fra tutti gli strumenti da lavoro, a sei metri di distanza l'uno dall'altra, ma che fecero insospettire il sindaco DC perché secondo lui continuavano ad essere un simbolo di partito, allora si faceva "politica" e sfuggiva, al meschino, che politico era il fatto che i ragazzi dipingevano i muri della loro scuola e non già "il simbolo" o una qualche immagine particolare.

Così come è sfuggito il senso politico del murale proposto alla III scuola media "Virgilio" (nella nostra zona tutte le scuole medie si chiamano "Virgilio" a denotare la ricchezza culturale e di fantasia di chi le battezza!) da tre anni e finalmente approvato da quelli del 45° distretto scolastico.
Ma volevano garantirsi che non ci fossero "strumentalizzazioni" e allora la proposta di illustrare la poesia di B.Brecht "Domande di un lettore operaio alla storia" è stata ritenuta "troppo politica" e hanno imposto come tema "lo sport, la natura, la fiaba"! Come se fosse questione di tema e non di cultura se un tema è affrontato "politicamente", cioè dal punto di vista del bene comune invece che asetticamente, cioè in maniera insulsa, come è solita fare la scuola, capace in maniera impagabile di annacquare e svilire tutto ciò che tocca.

Provate a comportarvi nella vita come propone di fare la scuola ai nostri bambini e avrete chiara l'immagine del degrado culturale dell'istituzione: leggete una poesia, per es. "In morte di un amico" di Ungaretti, con l'idea di farne "il riassunto" o peggio "la versione in prosa", l'esercizio più stupido che esista, e capirete perché è così soffocata nei nostri fratelli più piccoli la sensibilità poetica: gli insegnano a distruggere il lavoro del poeta, la restituzione di pregnanza e musicalità alla parola, dopo di che è distrutta la poesia.

Provate a leggere un libro, per es. "Cassandra" di Christa Wolf interrompendovi ad ogni fine di capitolo per sottoporvi ad un'analisi logica di un periodo, al riassunto del capitolo e a un questionario che vi chiarisca se avete proprio ben capito il testo. Potete continuare sottolineando gli aggettivi e i pronomi, e capirete perché alla stragrande maggioranza degli alunni delle nostre scuole non verrà mai più in mente di leggersi un libro.

Cos'è che si distrugge così? Si distrugge la poesia e la ricchezza umana della scrittura per sostituirvi un'arida, insulsa e spesso equivoca catalogazione di parole ormai accuratamente private di senso. E pensare che ogni bambino è potenzialmente poeta, avendo spontaneo l'uso conciso e pregnante delle parole: d'altra parte la differenza fra l'artista e ogni uomo è solo quantitativa e non qualitativa, se no sarebbe preclusa ogni possibilità di comunicazione! Ma a questo si arriva quando si pretende che la scuola serva solo a tramandare acriticamente nozioni invece di essere produttrice di cultura.

È così che è possibile costringere i ragazzi per tre anni di scuola media a studiare una lingua straniera senza che, alla fine del corso, sappiamo chiedere ad un passante dov'è il più vicino gabinetto: in compenso sapranno dire tutto sui figli, gli arredi e le abitudini della famiglia Smith o Dupont.

E anche dalla scuola si ricorre al "113": "Dobbiamo fare una mostra per dopodomani e ci serve una mano..." e tu vai e ti esibiscono i soliti temi alla moda, la droga, l'inquinamento, la violenza, esposti in maniera insulsa, dove senti lontano un miglio che è assente ogni partecipazione umana. Sconfortante e triste!
Tanto più triste se pensi che basta che un po' di calore umano emerga pur nell'atmosfera disinfettata e sterile della scuola (i muri grigi, o "paglino", le porte color merdino, nessun attaccapanni, nessun cestino per le carte, nessun cancellino, una lavagna sbilenca, un microscopico pezzetto di gesso) perché ti ritrovi tutti i ragazzi attorno, e ti riconosceranno per strada lontano un miglio salutandoti con entusiasmo, ma che hai fatto di speciale? poco, ma così tanto, in quell'ambiente: hai aperto per una volta una piccola breccia, nel muro che divideva la scuola dalla vita, facendo vedere che è la vita la nostra scuola: è la vita che fa cultura e dove si vuole invece istituzionalizzare lo studio eliminando ogni vera partecipazione, avendo escluso la vita, è la cultura ad andare a farsi fottere.

Un riassunto della situazione può essere espresso dalla alternativa: "MA INSOMMA SIAMO UOMINI O PROFESSORI?"
Allora non c'è nessuna speranza?

Anche un piccolo gruppo come il nostro non potrebbe più esistere se speranza non ce ne fosse, ma il motivo per cui stiamo scrivendo questo giornale è l'urgenza di lanciare un appello a tutti quelli che ancora non sono morti perché facendo appello al calore umano si riesca a distruggere l'atteggiamento mortifero e mortificatorio del "professore".

Tanto più valido, il messaggio, se alcuni di noi già lo fanno, essendo impegnati a lavorare nella scuola, le mosche bianche. È un appello rivolto a quanto di umano c'è ancora nei professori perché riescano a farlo emergere al di sopra della loro professione.

D'altra parte nessun esame, nessun concorso potrà mai garantirci dell'umanità degli insegnanti.
"Professore" non è solo l'insegnante a scuola, ma chiunque si ponga di fronte agli altri con l'atteggiamento di chi sa e vuole graziosamente spiegare al volgo ignorante com'è che stanno veramente le cose, ma con molto più orecchio ad ascoltarsi che ad ascoltare la voce o le esigenze dell'altro.

È così che in un'assemblea di dieci persone trovi quello che "deve" a tutti i costi fare il suo "intervento" che si era già preparato, indifferente al fatto che nel corso dell'intervento medesimo l'assemblea si assottigli da dieci a quattro persone, ma non per questo egli si interrompe o dubita: è, appunto, un "professore": chi non vuole ascoltarlo, chi se ne va, vuol restare ignorante: è colpa sua!

Ciò che invece dovrebbero fare i professori è ricordarsi di quando erano bambini, se lo sono mai stati, per cambiare atteggiamento di fronte alla vita, al mondo e agli altri, con la capacità di stupirsi propria dei bambini, la capacità di entusiasmarsi, che serve a dare valore assoluto a ciò che si fa, la gratuità dell'approccio del bambino che certo non cerca un utile personale quando impiega ore ed ore a giocare, un poco di giocosa pazzia, l'assenza di vergogna nel dire quello che si pensa...
Un atteggiamento da far riemergere nell'uomo adulto, perché si creino le premesse per poter riallacciare un discorso umano.

LA GRATUITA'
Se per un lavoro di duecento ore a un murale con cinquanta ragazzi di una scuola elementare chiediamo un rimborso di un milione e mezzo di lire, non è perché siamo pazzi o scemi, è perché temiamo che non essendo prevedibile né sospettato da chi ci finanzierà il valore enorme di ciò che stiamo facendo, ma piuttosto catalogato nella categoria dello "sfizio", se chiedessimo di più manderemmo a monte la
cosa. E invece sappiamo che non è certo il milione e mezzo di rimborso spese che ci ripagherà del nostro lavoro, ma piuttosto la gioia che sprizzerà dagli occhi dei bambini divenuti pittori, la gioia del custode della scuola restato appresso a noi fino alle dieci di sera a vedere come andava a finire l'opera, un contagio a travalicare il meschino calcolo: mi danno tante lire per tante ore, non sono tenuto a fare di più, non mi compete, che purtroppo non è solo del custode, ma della gran maggioranza degli insegnanti.

Col milione e mezzo (consegnateci in assegni dati in pagamento all'esattoria comunale, da andare a farsi cambiare in denaro dal salumiere o dal coloniali perché la banca che ha emesso l'assegno non si fida di sconosciuti, cioè di pezzenti) si potranno finanziare altre opere, maschere per il prossimo carnevale, tela da dipingere, pittura, carta per i manifesti e i ciclostilati, inchiostro.

Abbiamo avuto gratis i nostri talenti, li mettiamo gratis a disposizione di tutti, perché ci pare giusto così.
Certo per la maggioranza è un comportamento sciocco ma invece è rivoluzionario perché IL NEMICO PRINCIPALE DA ABBATTERE È IL DENARO.

Questo mostro che regola e schiaccia la vita di tanti, che è alla base dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, che opprime e cancella tanti sogni, che distrugge la vita votandola all'accumulazione.
NON C'È RIVOLUZIONE SE NON SI CANCELLA IL POTERE DEL DENARO!

La mancanza di disponibilità di denaro serve da alibi per non fare tante cose.
Siamo un'associazione culturale e quindi non abbiamo la partita IVA e allora il "finanziamento" dei nostri lavori come inquadrarlo? Alla scuola servono le ricevute, le bollette, ma non serve la valutazione di ciò che si fa, se vale o no.
Ci si riduce a vittime della carta scritta, come se nelle ricevute si desse una valutazione del lavoro svolto e della sua validità didattica.

L'anno scorso per un lavoro di un mese alla scuola media, in attività di integrazione che produssero un teatro delle ombre per illustrare storie inventate dai ragazzi, l'allestimento del palco per il teatro, un teatro dei burattini e un televisore con un rullo di carta dipinta sui problemi del rione, della sicurezza antisismica, della droga e della corsa agli armamenti, per recuperare almeno i soldi spesi in tela, carta, pittura, legno, centomila lire, si finì col fare una colletta fra gli insegnanti volenterosi, perché dopo che si era comprato il materiale si trovò che servivano le ricevute fiscali... E questo ci riporta ad un’altra caratteristica del nostro lavoro, perché lavoriamo a Napoli.

A Napoli "programmazione" è una parola sconosciuta.
Non si programma niente. Né a scuola, dove se si fa la programmazione la si fa per riempire delle carte da mandare al provveditorato a ingrossare gli archivi: così si torna a rinchiudersi eternamente nella gabbia del "si è fatto sempre così" per incapacità di progettare un futuro diverso. Forse anche per l'impossibilità di sapere, anno per anno, di quanto denaro si possa disporre, data anche la sfasatura fra anno solare ed economico ed anno scolastico, e la generale incompetenza degli organi collegiali.

A livello politico avviene lo stesso, e la politica dovrebbe essere specificamente un'attività progettuale e programmatica per risolvere i problemi comuni. Ma, dalla regione alla circoscrizione si lasciano divenire "residui passivi" i fondi disponibili per la cultura per incapacità decisionale o è meglio dire per mancanza di volontà politica di fare delle scelte.

È così che il disoccupato e il senzatetto, lungi dal risolvere i loro problemi diventano delle figure "storiche", il disoccupato storico, il senzatetto storico, per distinguerli da altri entrati nella categoria da meno tempo, per esempio il senzatetto da sisma, che non è storico e quindi non avrà la casa in questo eone, a meno che non l'abbia prima dell'altro che ormai appartiene, appunto, alla storia.

Come meravigliarsi, allora, che anche l'attività politica di opposizione o l'attività di animazione culturale si facciano ricorrendo al "113"?

Ma se ci si dovesse ridurre ad aspettare i finanziamenti pubblici per fare le cose si ricadrebbe nella schiavitù del denaro e si finirebbe col morire.

L'unica attività che abbiamo realizzato con il comune di Napoli, un murale con alcuni muralisti cileni, cui dovemmo anticipare la loro parte di contributo e rimborso spese, ci è stata rimborsata dopo due anni e mezzo, quando ormai l'inflazione galoppante ci aveva mangiato buona parte del denaro.

Allora non resta che lavorare gratis ed essere contenti, se questo significa essere liberi.
Chi ci finanzia? Nessuno: allora possiamo dire quello che pensiamo senza dover rendere conto a nessuno, se non alla nostra coscienza, che cerca di lavorare per diventare coscienza collettiva, per dimostrare a tutti che il metro di giudizio sulle cose non deve essere "quanto costa?" ma piuttosto "quanto vale?" e questo finirà per sconvolgere chi non aveva mai pensato che si potesse ragionare così.

È forse inconcepibile all'estero, cioè nel resto d'Italia, che noi dobbiamo lavorare in queste condizioni. Forse altrove le istituzioni funzionano meglio, si programma, si ha più esperienza della burocrazia, tanto da non farsene inibire, ma qui è così, e noi andiamo avanti lo stesso, senza problemi, raggranellando i soldi quasi per elemosina, rimettendoci del nostro, per trasformare la povertà di mezzi in ricchezza di espressione.

Siamo una decina: alcuni hanno la fortuna di avere un lavoro, altri lavorano in cooperativa, alcuni insegnano, altri sono semplicemente disoccupati. Non nuotiamo nell'oro, anzi ci riesce difficile mantenere la contabilità per arrivare alla fine del mese, ma se questo è garanzia di libertà, è un prezzo che ci piace pagare.
Forse questo scritto aiuterà anche altri a capire e forse a fare come noi, perché la lotta contro il potere del denaro possa essere un giorno vincente.
Quel giorno saremo certo più liberi.

La quotidianità: un luogo di sperimentazione dell'utopia